Aprile 2022 – Lifvsleda

 

Quattro rintocchi ripetuti su loro stessi suonano una melodia avvolgente, semplice e raggelante. Come fa e come va a finire lo sapete bene. Quel che non sapete, però, se non siete ancora tra i fortunatissimi che hanno avuto il piacere di fare la conoscenza di questi quattro rintocchi di gelo che compongono oggi la nostra personale élite di magnificenze rilasciate nello scorso aprile, è quanto incredibilmente soddisfacenti e ricchi possano essere qualora approfonditi come meritano.
Il piano, come vi ha anticipato qualcuno settimana scorsa, è questa volta molto semplice: due svedesi e due tedeschi non entrano in alcun bar ma si sfidano falci tra gli artigli all’ultimo battito; all’ultimo rintocco che rimarrà nell’etere a volteggiare funesto nel momento in cui la campana di ghiaccio subirà l’attesa crepa finale. E chi più funesto dei Lifvsleda? Eppure… Eppure… Sebbene, come avete avuto sicuramente motivo d’intuire per titolo e grafica principale dell’articolo che state leggendo, “Sepulkral Dedikation” (fuori per una garanzia di blasone come Norma Evangelium Diaboli, non dovesse bastare il nostro spassionato suggerimento) sia difatti finito per essere effettivamente il nostro disco del mese per un soffio, quel che rimane a conti fatti è anche e nondimeno un numero esatto di pari nomine per i connazionali Månegarm con il loro nuovo “Ynglingaättens Öde”.
Chi saranno dunque questi due altri e misteriosi autori teutonici ad aver spadroneggiato e spopolato in redazione, insieme a questi altri due svelati dischi, nell’ultimo mese del 2022 ad oggi conclusosi? Lo scoprite, ovviamente, proseguendo nella lettura che comincia con l’introdurvi uno degli album di cui sentirete parlare meno quest’anno; il quale è anche uno di quelli di cui invece, in un mondo che capisce cosa siano davvero il Black Metal e la musica oscura più in generale, avreste dovuto e dovreste sentir parlare di più in assoluto.

 

 

[…] Eppure, il Black Metal dei Lifvsleda non può essere definito, con un luogo comune enormemente abusato com’è, quale l’esempio di una qualche vecchia scuola. Non può essere né classicista né tantomeno revivalista ciò che da un lato non è un omaggio ai tempi passati ma la loro stessa emanazione che, di conseguenza, si fa diretta reincarnazione nel presente e del presente così come le ceneri rendono in fondo più fertile il suolo in cui sono accolte; non può essere vecchia la scuola di ciò che, dall’altro, con mezzi di una familiarità disarmante crea uno spettro di sensazioni frattanto nuovissime e antiche come il tempo. Non può essere programmato né organizzato ciò che è organico nelle sue viscere. Perché il Black Metal dei Lifvsleda è fatto di tutto ciò, di tutta la materia che rende questa musica eterna come una delle più profonde ed inscalfibili dedizioni possibili […].”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

Se il fulminante “Det Besegrade Lifvet” recideva con rabbia i legami con il fiorire di una vita terrena elevando la caducità a lanternino primo da inseguire alla volta dell’ignoto, i Lifvsleda fanno il loro ritorno come mesti e più che mai consapevoli apostoli della morte, profeti della fine ultima a tingere di definitivo nero quel mondo di opposti e paradossi tratteggiato in precedenza: una colata di densa pece si cosparge grinzosa sui brani del loro secondo full-length, cristallizzandosi in composizioni che sono vere e proprie odi disperate e rotte a tutto ciò che è destinato ad avvizzire. Opaco, cupo, abissale: “Sepulkral Dedikation”, ammantato da una patina analogica immersiva e calda pur dispiegandosi in riff e strutture raggelanti a ricordarci che le uniche cose a non morire sono quelle che non sono mai nate, porta avanti una controtendenza che non è sterile posa vintage, bensì incorrotta e travolgente passione nei confronti del Black Metal come mezzo primo e linguaggio, ma riletto e interpretato in uno stile che ad oggi, senza mezzi termini, suona tragicamente inconfondibile.”

Secondo disco di una delle band più interessanti in ambito Black Metal, i Lifvsleda proseguono nella loro attività di decantare la morte e in “Sepulkral Dedikation” lo fanno in un modo assolutamente affascinante e pronto a stritolare le viscere. Uno degli aspetti che più amo di questo gruppo è la concretezza e il modo in cui ogni canzone arriva dritta al punto senza perdersi in inutili ghirigori compositivi; ma soprattutto, all’interno di questo nuovo lavoro in particolare, si resta impressionati dalla fangosità della produzione senza che il sound perda mai di definizione e di assoluta comprensibilità. Se l’obiettivo dei Lifvsleda è quello di riportare in auge e nel presente quelle che possono sembrare all’orecchio esperto vecchie sonorità Black Metal di derivazione scandinava direi che gli svedesi continuano a fare centro dimostrandosi un ascolto totalmente imprescindibile per ogni appassionato del genere.”

“In un settore nel quale sono giustamente gli artisti ad avere il pieno controllo su quanto da loro viene inciso, ogni tanto fa bene sentire di gruppi i quali arricchiscono con naturalezza il loro sound tramite dei trademark tipici dell’etichetta produttrice. L’impalpabile tocco comune a molte uscite di casa NoEvDia aiuta infatti i Lifvsleda a sfumare decisamente i più rigidi contorni e smussare gli angoli del ruvido esordio, non per facilitarne l’assimilazione ma al contrario per espanderne i miasmi trainati sì da ritmiche e melodie abbastanza definite, ma al tempo stesso vicine maggiormente alla moderna sensibilità Orthodox (campo in cui primeggia appunto la label transalpina) piuttosto che alla Svezia di venticinque anni or sono. Ben saldo nel contesto presente senza però rinunciare alla puzza di cadavere da tempo decompostosi, “Sepulkral Dedikation” sancisce la completa affermazione del duo scandinavo piazzandoli ai primi posti tra le nuove e non nuovissime leve in circolazione.”

“Possiamo di certo dire che i Lifvsleda, al giorno d’oggi, rappresentino al meglio ciò che di più emozionante il nuovo Black Metal svedese possa offrire, al netto di avere fra i componenti un certo Mikael Österberg dei Sorhin che senz’altro non è esattamente un principiante nel suo genere. Il gruppo propone infatti un chiaro esempio di musicalità della Nera Fiamma di stampo nazionale, con tanto di quella tipica melodia morbosa che ha sempre reso unico ed inconfondibile questo stile, ma incorporando altresì delle tipiche affinità di suono e personalità con un vecchio e caro stile norvegese declinate in una proposta unica, veicolata tramite un concept lirico interamente devoto alla madre morte. Tutto ciò rende la proposta degli svedesi decisamente degna di ascolto; e non c’è quindi troppo da sorprendersi se una label di nicchia come Norma Evangelium Diaboli, con la sua estremamente selettiva ossessione per la qualità sulla quantità, abbia deciso di portarli sotto la propria ala mortifera. Gruppo da non perdere.”

Gli anticipati connazionali Månegarm con il loro nuovissimo “Ynglingaättens Öde”, uscito ancora una volta per Napalm Records: un approfondito concept-album sugli Ynglingar, la prima e mitica famiglia di re nel glorioso casato di sovrani svedesi, imparentati persino con gli dèi. I tre musicanti di Norrtälje riescono a farci suonare l’insieme di storie come una favola ed efferato al contempo, in uno stato di grazia musicale che ha e rapito l’interezza della congrega.

“Come cantastorie sospesi in un regale stato narrativo misto al poetico, come scaldi alla corte della discendenza Ynglingar, in “Ynglingaättens Öde” i Månegarm realizzano uno dei dischi più immediati e al contempo stratificati, più accessibili eppure più maturi, più memorabili e squisitamente melodici eppure graffianti, duri ed incisivi della propria intera e ormai sostanziosa discografia. Forti della scelta di rendere sempre più compatti i loro album, rispetto alla eterogeneità contenutistica dei vari “Vargstenen” o “Legions Of The North”, “Fornaldarsagor” resta quindi la matrice su cui riprendere un discorso rinnovandolo, e la solidificazione concettuale prosegue pertanto di pari passo a quella di un timing centralizzato dei vari brani che restano il più classico numero complessivo di otto non allungandosi (fatta splendida eccezione per la sorprendente opener “Freyrs Blod”) bensì arricchendosi di elementi ed intuizioni sempre più prestanti nel caratterizzarli e renderli unico l’uno dall’altro – come fossero capitoli di una favola, di una saga infinita fuori dai confini del tempo e che si tinge di realtà. E chi può in fondo dire non lo sia?”

Ormai dotati di un’esperienza fuori dal comune e di un modo di fare musica che da decenni è riconoscibile quanto la sagoma di lupo che, sempre evocativa, fa capolino sul loro logo, i Månegarm dimostrano con “Ynglingaättens Öde” di possedere da qualche anno una rinnovata freschezza: tra gli otto nuovi brani infatti traspare oggi come non mai una sicurezza ed una semplicità nel riuscire ad esprimersi al meglio in tutti i registri del genere con un gusto ed una capacità sorprendenti. Permettendosi persino di limitare quantitativamente gli episodi più feroci, dosandoli tuttavia in violente esplosioni ancora più laceranti e mantenendo una ruvidità di base nel riffing squadrato e sempre graffiante, gli svedesi aprono infatti la loro nuova personale saga con uno dei pezzi più complessi, lunghi e sfaccettati della loro intera discografia, per fargli poi seguire in perfetta comunione un compendio di brani dallo squisito gusto melodico che si regge su una capacità di arrangiamento fenomenale e un sentore di nostalgico intimismo: un’uscita dagli intriganti ed inediti chiaroscuri che va a stagliarsi come uno dei dischi più riusciti e sfaccettati della formazione.”

Prosegue la rinascita qualitativa dei Månegarm derivante dall’evoluzione sistematica delle sonorità che più li hanno resi celebri ed apprezzati grazie anche all’aggiunta di qualche brano inaspettato come l’opener “Freyrs Blod” che arriva a toccare i dieci minuti di durata gestiti e sviluppati in maniera più che ottimale. Il nuovo “Ynglingaättens Öde” gode, come quest’ultima, sempre di un perfetto equilibrio tra sonorità estreme e influenze folkloristiche, riuscendo a trovare un connubio seriamente ideale tra epicità, melodia e aggressività. Anche i featuring vocali risultano essere azzeccati permettendo alle composizioni in cui compaiono di esprimere delle particolarità che magari non sarebbero emerse tramite il lavoro e la personalità dei soli tre membri nella formazione svedese, come accade ad esempio in “En Snara Av Guld” che attraverso l’ugola di Lea Grawsiö Lindström si addentra in atmosfere quasi fiabesche; oppure come nella successiva “Stridsgalten”, traccia in cui la presenza di Jonne Järvelä e Robert Dahn sposta leggermente l’asticella verso una tipica produzione Folk Metal di matrice estrema. In sostanza un album più che piacevole e ben fatto, solidissimo e in piena tradizione Månegarm: consigliato soprattutto (ma non soltanto) se già avete apprezzato il risveglio avvenuto con il precedente “Fornaldarsagor”.”

“Sopra al solito, oltremodo raffinato gusto compositivo che ci aveva rapito l’anima nel 2019 paiono adunarsi grosse nubi nere, a segnare il passaggio dalle gloriose imprese allora narrate alle fragilità umane al centro del peculiare concept tematico sviscerato dagli svedesi con “Ynglingaättens Öde”. Già i singoloni da battaglia si tingono del resto di un dramma prima confinato a poche tracce ed ora invece aleggiante persino negli episodi più ruspanti ed immediati, restituendo una volta per tutte alla band la tridimensionalità emotiva dei tempi d’oro (quelli di “Nattväsen” su tutti). Non è più tempo per i soli e più celebrati eroi, paiono dirci i Månegarm tra un crepuscolare violino ed un coro da groppo in gola, o forse non c’è nemmeno mai stato; eppure, con una simile prova a sfondare la barriera psicologica del decimo full-length, la loro musica continua ad essere una splendente finestra su di un mondo dove, di tanto in tanto, tutti noi vorremmo vivere.”

“Dopo il buonissimo “Fornaldarsagor”, che segnava un ritorno ad una certa ed alta qualità la quale sembrava latitante negli immediatamente precedenti album, i vichinghi di Norrtälje pubblicano il loro decimo full-length: un traguardo già di per sé decisamente importante per una band, ma in cui è finalmente e per giunta possibile ascoltare tutto il meglio del loro repertorio discografico in una sorta di somma che non risulta tuttavia e affatto un furbo stratagemma per mescolare alla rinfusa. Al contrario, condito com’è di ottime novità qua e là ad integrarsi agli elementi più immancabili della loro proposta, funziona decisamente bene dall’inizio alla fine, senza alcun momento più fiacco o debole nella sua continua mescolanza di tratti epici, concitati, melodico-fantastici e folkloristici; il tutto legato alle liriche nella scelta del formato concept-album optata anche per il precedente lavoro, ma che in questa sede funziona forse ancor di più. Un’ottima riconferma.”

Il ritorno su queste pagine del già apprezzato collettivo Mosaic, questa volta in forma di quasi-one-man band, che non poteva essere più sorprendente e bello di così. “Heimatspuk” (fuori per Eisenwald) regala un viaggio tra oscurità e sangue nella casa spirituale e geografica del suo autore principale: un viaggio non sempre facile, ma proprio per questo ricco di qualità da scoprire e grandissime intuizioni musicali fatte di una personalità di nuovo perfettamente inquadrata in un linguaggio inconfondibile.

Più che di un ritorno al Black Metal o al Metal di natura atmosferica per i Mosaic, l’heimat-spuk è affilamento decisivo di quelle troppo eterogenee tendenze sperimentali che avevano eccessivamente inficiato sulla complessiva riuscita di un “Secret Ambrosian Fire” dopo l’eccellenza del tra l’altro per nulla canonico “Old Man’s Wyntar”. Brullo, dipinto di paesaggi spogli, tetri, esistenziali e locali, dotato di una teatralità da opera-radiofonica lo-fi, “Heimatspuk” è comunque un disco difficile e non adatto a qualunque palato: sicuramente rapsodico ed apparentemente frammentato non meno di quel “Mosaic” dei Wovenhand che nel 2005 ha inconsapevolmente battezzato il progetto tedesco rivelando a quest’ultimo, come in una visione lucida, una direzione estetica dalle infinite possibilità espressive da inseguire. Ma proprio in questa concreta episodicità e in una discontinuità stilistica dotata di estrema coerenza interna è capace d’interessare prima e di stregare poi, quando gli viene donato il giusto spazio, perché parla la sofisticata lingua dell’autunno: di quella malinconica e disperata stagione triste per eccellenza. Triste più della morte dell’inverno, perché consapevole condannata a diventarlo troppo presto essa stessa sui colli spiritati della Turingia; perché nonostante nei suoi occhi regni già il declino della vita, il vacuo freddo sentire di spettri, nel suo cuore dimora ancora la forza espressiva figlia dell’ardere infuocato di una indomita estate.”

Ritrovando tra le pieghe ventose e umide di una stagione di mezzo le suggestioni di antichi gesti e perdute visioni, i Mosaic di “Heimatspuk” osservano disciogliersi le ultime nevi di quell’“Old Man’s Wyntar” di cinque anni fa riappropriandosi dell’approccio fumoso e antico, e facendo tesoro dell‘ardore frammentario di “Secret Ambrosian Fire” nello strutturare una tracklist che riesca a mettere in equilibrio le anime ancora irrequiete del progetto. Tra soluzioni atmosferiche mai scontante e dal piglio evanescente, e un suono che si ammanta più costantemente di magia lo-fi, il ritrovato estremismo si piega fra la malinconia poetica di matrice tedesca e un ampio registro di nuance Neo-Folk dalle multiformi e geograficamente distanti influenze: la dimensione raggiunta dai Mosaic con il loro effettivo terzo full-length riesce una volta per tutte a focalizzare il talento estroso del proprio incantatore, in un racconto che trova il suo fascino tra sussurri, scoppiettii di braci e aguzze sagome in agguato nell’insondabile buio.”

Morituri te salutant: ultimi in lista, i Drudensang da tempo attesi al varco e che con “Tuiflsrijtt” non hanno deluso il nostro Ordog, il quale in una conversazione privata col sottoscritto si è spinto a definirlo il disco figo che la Folter pubblica ogni due anni. Tra diavolerie montane ed altre tradizioni inquietanti, gli spiriti della cavalcata infernale in musica potevano in verità essere più variopinti di così, eppure non c’è affatto male…

“Tedeschi che più tedeschi non si potrebbe, i finalmente esordienti Drudensang tributano senza troppe fisime il proprio humus di provenienza portandosi dietro sia le debolezze più diffuse nel substrato estremo locale (in primis la ripetitività di un lavoro dal minutaggio comunque bello sostanzioso), che tutti i motivi per cui le mazzate teutoniche trovano sempre uno spazio nel cuore nonché uno sparuto manipolo di accaniti estimatori: violenza, melodia e tutto quel che sta nel mezzo. Le tematiche a base di krampus e stregoneria montana possono certo trarre in inganno chi si aspetta divagazioni più folkloristiche qui invece dosate col contagocce e stemperate in movimenti di natura più ambientale; tuttavia, una volta prese le misure dell’assai più terrena e burrascosa proposta, “Tuiflsrijtt” si rivela un ascolto di prima qualità, intrattenente di per sé nonché uno sfogo perfetto qualora alternato a materiale magari un filino meno irruento.”

Più di un altro titolo, oltre ai quattro che si sono presi con la forza il riflettore in questo articolo, avrebbero probabilmente meritato parole di elogio durante il mese d’aprile. Tra gli altri noi ci teniamo a consigliare almeno un ascolto agli inespugnabili e fumosissimi labirinti sonori dei tedeschi Häxenzijrkell (con il loro secondo full-length, l’intitolato “Urgrund” uscito per Amor Fati Productions), ai Bhleg di Nordvis con il primaverile “Fäghring” (se Arckanum potesse mai diventare un po’ più tradizionalmente folkloristico e luminoso, probabilmente suonerebbe non troppo dissimile da quel che potete sentire qui), ai Grand Belial’s Key del solido ritorno a sorpresa “Kohanic Charmers”, consigliato dal nostro Feanor persino tra i suoi cinque migliori dischi dell’annata durante i primi quattro mesi, oltre a proporre dei sempre artistici Watain anche se oramai non necessitano di certo di spinte da parte nostra per essere scoperti; una band che a prescindere da ogni gusto e gradimento (quello risicato del sottoscritto non escluso) merita il successo ottenuto in oltre venti anni di dedizione alla propria causa, i cui intenti sono spesso poco compresi e che tuttavia con l’altisonante “The Agony & Ecstasy Of Watain” sembra a chi scrive aver fatto un lavoro molto più riuscito, profondo e lodevole che in recente e più acclamata memoria, con degli splendidi picchi tutti da gustare verso la sua fine in brani quali “Funeral Winter” e nella davvero magica “Septentrion”. Lo recuperate agevolmente tramite Nuclear Blast, mentre un po’ più ardua da localizzare anzitutto potrebbe essere l’ultima proposta di oggi, impossibile da includere qui anche solo per il suo formato ristretto su EP: il nuovo lavoro dei Comando Praetorio, intitolato “Sovvertire La Tirannia Della Luce”, che se avete apprezzato “Ignee Sacertà Ctonie” come noi sul finire del 2019 trovate pubblicato per Aeternitas Tenebrarum Musicae Fundamentum, e che potrebbe riservare parecchie buone sorprese incastonate lungo lo scorrere dei suoi due mastodontici brani.

 

Matteo “Theo” Damiani

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